I RISCHI FINANZIARI POSTI DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Il Vicedirettore della Banca d’Italia, il dott. Paolo Angelin, nel discorso tenuto a Milano il 15 novembre scorso presso l’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del credito ha affrontato la tematica relativa i rischi finanziari sistemici posti in essere dal cambiamento climatico e dal degrado ambientale. 

In particolare, sono stati analizzati due delle principali criticità che si paleseranno in seguito alla spinta regolatoria europea in materia di rendicontazione e valutazione dei rischi ambientali e climatici (e, più in generale, dei rischi ESG-Environmental, Social and Governance). Tali criticità, se non adeguatamente superate, tenderanno a viziare e a distorcere a monte i processi decisionali delle istituzioni finanziarie private e l’attività di controllo delle autorità di vigilanza bancaria ponendo, così, un serio ostacolo al percorso di transizione ecologica della società e dell’economia. 

GLI SVILUPPI DELLA NUOVA REGOLAMENTAZIONE EUROPEA IN MATERIA DI SOSTENIBILITÀ

Negli ultimi anni, le diverse istituzioni di regolamentazione europea hanno formulato un nuovo corpus normativo, tuttora in corso di definizione, riguardante i rischi ambientali, sociali e di governo (rischi ESG) delle imprese finanziarie e non finanziarie.

Tra le misure di maggior rilievo, meritevole di menzione è senz’altro la proposta avanzata nell’aprile 2021 dalla Commissione Europea di direttiva sull’informativa dei rischi di sostenibilità delle imprese (Corporate Sustainability Reporting Directive; CSRD), che è destinata ad entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2024. 

In seguito all’introduzione della CRSD, la nuova dichiarazione non-finanziaria sui rischi ESG, che le istituzioni finanziarie e le imprese non finanziarie saranno chiamate a redigere, da un lato, interesserà una platea più ampia di soggetti, includendo dal 2026 anche le PMI quotate e non solo le grandi imprese, dall’altro, includerà obblighi di informazione e di comunicazione molto più dettagliati rispetto alla reportistica prevista dalla precedente direttiva (Non Financial Reporting Directive; NFRD).

Le banche avranno, dunque, non solo maggiori informazioni sulle imprese affidate, ma, in quanto istituzioni private parimenti soggette alla direttiva, dovranno a loro volta fornire al mercato e agli organismi di controllo informazioni qualitative e quantitative più dettagliate sui propri rischi, come previsto dai nuovi obblighi di rendicontazione inclusi nel secondo regolamento europeo sui requisiti di capitale delle banche (Capital Requirements Regulation; CRR2).

Di fondamentale rilievo è, altresì, la nuova direttiva europea riguardante i doveri di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (Corporate Sustainability Due Diligence Directive; CSDDD). L’introduzione di questa normativa determinerà l’obbligo per le grandi imprese finanziarie e non finanziarie di:

  1. fornire informazioni dettagliate sulle proprie esternalità negative in materia di diritti umani e di impatti ambientali
  2. redigere un piano di transizione che sia coerente con gli obiettivi di sostenibilità definiti dall’Accordo di Parigi.

Infine, troviamo la regolamentazione, ancora in fase embrionale, in materia di audit, ovvero di verifica dell’attendibilità dei dati di sostenibilità. Attualmente, infatti, solo in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, le imprese soggette a NFRD pubblicano dati di sostenibilità che sono validati da revisori contabili. 

ALCUNE CRITICITÀ GENERATE DALLA SPINTA NORMATIVA EUROPEA

Alla luce di questa spinta regolatoria impressa dalle istituzioni europee in materia di sostenibilità, i rappresentanti delle istituzioni centrali nazionali, come la Banca d’Italia, hanno posto l’accento su alcune delle principali criticità che, da qui in avanti, si paleseranno sia per le autorità di vigilanza bancaria che per gli stessi “operatori del mercato”. 

Tra queste criticità troviamo:

  1. Carenze dei dati di sostenibilità ambientale and distorsioni insite nella tipologia di dati di sostenibilità utilizzati;
  2. Conflitto tra gli obiettivi individuali degli investimenti privati in termini di rischio-rendimento e gli obiettivi ambientali contenuti nei diversi piani di transizione; 

Queste criticità, infatti, si ripercuoteranno negativamente sulla capacità del sistema finanziario di indirizzare i flussi di finanziamento verso impieghi produttivi eco-sostenibili, inficiando, così, il reale processo di transizione ecologica, ovvero il percorso di decarbonizzazione degli attivi registrati sia sui bilanci degli “intermediari finanziari” che delle imprese.

Di conseguenza, è necessario tener conto e superare tali criticità per evitare che il processo di reale transizione ecologica venga bloccato a causa dell’incapacità del sistema finanziario e imprenditoriale privati, dei decisori politici e delle autorità di controllo di valutare correttamente i rischi ambientali e climatici, specialmente il “rischio fisico” e il “rischio di transizione”. 

CARENZE E DISTORSIONI NEI DATI DI SOSTENIBILITÀ

Tra i principali problemi che ad oggi si riscontrano in merito ai dati di sostenibilità ambientale, il primo risiede proprio nella carenza di dati. Nello specifico, con l’approvazione della CSRD, l’obbligo di reportistica ESG e di correlata redazione della Documentazione Non – Finanziaria riguarderà circa 4-5.000 imprese operanti in Italia (contro le poche centinaia attualmente coinvolte e, soprattutto) contro le oltre 4 milioni di imprese attive sul territorio nazionale.

La carenza di dati, dunque, è di carattere strutturale, in quanto è legata al limitato raggio d’azione della nuova regolamentazione europea che esenta dagli obblighi di rendicontazione dei rischi ESG le micro, piccole e medie imprese non quotate. Tale carenza, inevitabilmente peserà di più per quei Paesi che, proprio come l’Italia, presentano una struttura produttiva relativamente dominata da questo tipo di imprese, rispetto a quanto vale per altri Paesi europei. 

Tuttavia, l’esenzione dagli obblighi di reportistica sui rischi ESG, potrebbe indurre la marea delle micro, piccole e medie imprese non quotate a procrastinare, comprensibilmente, l’attività di rendicontazione ambientale, con conseguenze negative in termini di perdita di competitività, di maggiori costi di finanziamento o addirittura di perdita di accesso ai finanziamenti bancari. Ciò a vantaggio delle altre imprese (grandi e PMI quotate) che, dovendo pubblicare in maniera trasparente i propri dati di sostenibilità, alimentano positivamente le aspettative dei diversi stakeholders (banche, clienti, governi, società civile) riguardo la propria performance di sostenibilità, con ovvie ricadute positive per l’impresa in termini di minori costi e maggiori rendimenti, nonché in termini di maggiori probabilità di sopravvivenza futura come organizzazione.

In aggiunta al problema della carenza di dati, vi è quello della distorsione insita nella tipologia di dati utilizzati ai fini della valutazione dei rischi ambientali e climatici per i vari settori dell’economia. Infatti, come sottolineato dal Vicedirettore della Banca d’Italia, i dati ad oggi utilizzati sono prevalentemente di tipo settoriale and di natura fortemente aggregata. Dati settoriali molto aggregati non consentono, infatti, di individuare l’enorme eterogeneità presente in termini di impatto ecologico sia tra i diversi settori che all’interno di stessi settori e sotto-settori produttivi. 

Per tale motivo, viene suggerito agli organismi di regolamentazione e vigilanza bancaria, nonché alle varie istituzioni finanziarie, di evitare di fare eccessivo affidamento su soli dati settoriali aggregati nell’ambito, rispettivamente, delle procedure di controllo e delle decisioni di finanziamento bancario e di investimento finanziario. Non a caso, qualora le banche maggiormente intese ad abbattere l’impronta ecologica dei propri attivi, i.e. dei finanziamenti concessi, facessero eccessivo affidamento sui soli dati settoriali aggregati, si ritroverebbero a ridurre in maniera indiscriminata il credito alle imprese appartenenti ai settori classificati come “ad alte emissioni”, trattandole tutte come imprese non sostenibili [6]. Questo, inevitabilmente, andrebbe a svantaggio di quelle imprese che, all’interno di uno stesso settore, hanno impronte ecologiche relativamente più basse di altre imprese e/o che propongono credibili e ambizioni piani di decarbonizzazione dei propri processi produttivi [7], che non potrebbero, perciò, essere realizzati data l’impossibilità di accedere al credito. 

Di conseguenza, seppure l’importanza di disporre di dati settoriali aggregati rimanga, Angelini propone alle istituzioni di regolamentazione e di vigilanza bancaria europea, da un lato, di utilizzare anche classificazioni settoriali più granulari, alla luce proprio delle recenti evidenze empiriche basate su micro-dati che confermano l’esistenza di importanti eterogeneità in termini di impatto ambientale all’interno dei diversi settori e comparti, dall’altro, di disporre di dati a livello di singola impresa

Coadiuvare i dati settoriali aggregati con classificazioni settoriali più granulari e dati a livello di singola impresa rappresenterebbe, infatti, uno step decisivo da realizzare su base anche nazionale al fine di alimentare corrette informazioni nei processi decisionali di finanziamento ed investimento da parte delle istituzioni finanziarie, nei processi di controllo degli organi di vigilanza bancaria e nei processi di design delle politiche di tutela ambientale. 

In particolare, il vicedirettore della Banca d’Italia ha proposto di effettuare una raccolta armonizzata di dati microeconomici in materia di sostenibilità, con l’intento di rimediare ai problemi relativi ai dati di sostenibilità ambientale riscontrati dalle PMI, in termini sia di scarsa standardizzazione delle informazioni richieste che di eccessivo costo della raccolta e tenuta dei dati. A tal proposito, le associazioni di categoria – sia delle imprese finanziarie che non finanziarie – dovrebbero collaborare per la standardizzazione e la raccolta dei dati delle imprese rispettivamente affidate, mediante la predisposizione di modelli di rilevazione armonizzati (già sviluppati da alcune banche), che siano differenziati per criteri di proporzionalità, ovvero estremamente semplificati per le micro-imprese, più articolati per le PMI. Inoltre, al processo di raccolta armonizzata delle informazioni ambientali potrebbero contribuire parimenti gli enti pubblici che rilevano dati dettagliati sui consumi di gas e di energia elettrica per tutte le famiglie e le imprese italiane o gli enti pubblici che dispongono di dati sull’efficienza energetica dei fabbricati aziendali a livello di singola unità immobiliare. 

Senza la possibilità di disporre di informazioni sufficienti e adeguate, risulta molto complicato poter disegnare politiche pubbliche e riforme mirate all’obiettivo della tutela e della sostenibilità ambientale, così come risulta difficile per le banche e le altre istituzioni finanziarie non bancarie orientare i finanziamenti e gli investimenti discriminando a favore di imprese che adottano processi e metodi produttivi realmente eco-sostenibili. Di conseguenza, come sovra-menzionato, le carenze e le distorsioni riguardanti i dati di sostenibilità rendono il processo di transizione ecologica pressoché arduo da compiere. 

CONFLITTO TRA OBIETTIVI DI RENDIMENTO INDIVIDUALI E AMBIENTALI DEI PIANI DI TRANSIZIONE

In seguito all’approvazione della CSDD e del pacchetto CRR3/CRD6, è stato introdotto l’obbligo di redazione di piani di transizione sia per le istituzioni finanziarie e sia per le imprese non finanziarie. In particolare, la Vigilanza bancaria europea sta incoraggiando gli “intermediari” a dotarsi di piani di transizione che siano coerenti con gli obiettivi di sostenibilità dell’Accordo di Parigi e con la Tassonomia europea, nonché a fare pressione sulle imprese-clienti finanziate qualora non raggiungano nel tempo i propri obiettivi di transizione ecologica, fino a giungere all’extrema ratio di procedere ad un’interruzione dei finanziamenti per le imprese non ecologicamente responsabili. 

La criticità riguardante i piani di transizione risiede nel conflitto tra gli obiettivi individuali degli investitori privati espressi in termini di rischio e rendimento and gli obiettivi ambientali definiti nei piani di transizione. 

Infatti, a parità di condizioni, un investimento sostenibile dovrebbe essere relativamente meno rischioso e, dunque, meno redditizio. Di conseguenza, qualora gli investitori e i finanziatori dovessero essere riluttanti ad accettare rendimenti relativamente inferiori, i tradizionali obiettivi dell’investimento privato potrebbero entrare in conflitto con gli obiettivi della transizione ecologica e di sostenibilità. Infatti, gli sforzi dei finanziatori che decidono di erogare credito ad investimenti produttivi eco-sostenibili potrebbero essere resi vani dalla strategia di arbitraggio di altri finanziatori che si focalizzano esclusivamente sul binomio rischio-rendimento e che andrebbero, così, a investire in aziende emittenti non attente alla sostenibilità ambientale. 

Questo conflitto, dunque, limiterebbe fortemente il contributo che il sistema finanziario fornirebbe sul versante della transizione ecologica e, di conseguenza, gli stessi progressi sul fronte dell’effettiva tutela ambientale.

A tal proposito, Angelini suggerisce di evitare di fare eccessivo affidamento sui soli piani di transizione delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, ma di affidarsi maggiormente ai piani di transizione delle singole imprese dalle cui scelte di investimento dipende il sentiero del processo di transizione ecologica (da qui, a maggior ragione, la necessità di raccogliere dati di sostenibilità a livello di singola impresa). 

Inoltre, propone, da un lato, di estendere il raggio d’azione della regolamentazione e della vigilanza bancaria europea, in materia di gestione dei rischi ESG, anche ad altre istituzioni finanziarie non bancarie, in particolare alle società di gestione del risparmio e alle compagnie di assicurazione; dall’altro, che si sviluppi una maggiore cooperazione tra istituzioni finanziarie e imprese nel conseguimento di obiettivi di sostenibilità condivisi, che vengano adottati piani di transizione ricchi di contenuti e credibili e che vi sia maggiore offerta di consulenza da parte degli intermediari, nonché una maggiore trasparenza da parte delle imprese. 

Superare le criticità appena indicate rappresenta, ad ogni modo, un problema che le istituzioni europee e nazionali (specie quelle di regolamentazione finanziaria e di supervisione bancaria) sono chiamate a risolvere, al fine di impedire che il reale processo di transizione ecologica possa essere frenato i) dalla predilezione delle istituzioni finanziarie per le sole imprese – grandi e PMI quotate – che sono interessate agli obblighi di redazione dei rischi ESG (sfavorendo così le micro e PMI), ii) dall’incapacità strutturale del sistema finanziario nel suo complesso di valutare correttamente i rischi ambientali e climatici, ovvero di discriminare adeguatamente tra le imprese a diverso impatto ecologico e dotate o meno di piani di transizione, nonché iii) dall’incompatibilità esistente tra gli obiettivi individuali di rendimento e gli obiettivi ambientali contenuti nei piani di transizione. 

Superare queste criticità consentirebbe alle banche e alle altre istituzioni finanziarie di avere la capacità concreta di indirizzare adeguatamente i flussi di credito e di investimento finanziario a favore delle imprese meno inquinanti e di quelle dotate di significativi piani di decarbonizzazione. 

Domenico Viola (Junior Consultant CA Advisory)